Carlo Calcagni: da Colonnello agli Invictus Games.
Iniziamo con il presentarvi il Colonnello Carlo Calcagni, orgoglio italiano, e a raccontarvi la sua faticosa, ma avvincente, vita.
Carlo Calcagni è un guerriero, un uomo che ama i suoi figli e la vita, che va avanti a testa alta, sfoggiando un grande sorriso, nonostante il dolore, le terapie giornaliere a base di centinaia di pillole, dialisi, flebo e ogni tanto ricoveri e interventi in Italia come in Inghilterra.
Quest’uomo è fiero di essere un soldato per il quale l’uniforme è onore, è Patria, è dovere, è tutto.
Carlo nasce nel 1968 a Ichenhausen, in Germania, e oggi appartiene al Ruolo d’Onore dell’Esercito Italiano. Per tutti è un eroe dei nostri tempi, che ha racchiuso nel messaggio “Mai arrendersi” il suo vissuto e la sua capacità di affrontare la malattia e le cure mediche devastanti in modo esemplare. La sua vita è stata un susseguirsi di alti e bassi, ricordi felici di un’infanzia serena e momenti difficili legati all’adolescenza. Da vero combattente quale è, Carlo Calcagni è riuscito ad affrontare tutte le sfide che la vita gli ha riservato con grande forza e immenso coraggio.
La prima sfida inizia quando i suoi genitori, entrambi pugliesi, emigrano dal Salento per andare in Germania, precisamente a Ichenhausen, per lavorare e realizzare il sogno di costruire una casa a Guagnano, il loro paese di origine.
Il loro progetto era quello di tornare in Italia dopo aver acquistato i terreni necessari ad avviare un’azienda agricola a conduzione familiare. Si può dire perciò, con grande ammirazione, che il sacrifico dei suoi genitori è il paradigma dell’intera famiglia: apprezzare le cose semplici e durature ed avere sempre un obiettivo da realizzare.
In Germania, Carlo, trascorre anni felici, ma a soli sei anni è costretto ad affrontare una nuova sfida: rientrare in Salento senza i suoi genitori, rimasti a lavorare nelle fabbriche tedesche, per iniziare la scuola dell’obbligo.
Durante l’ultimo anno di studi, prima di conseguire la maturità, un compagno di banco e amico invoglia Carlo a presentare, insieme a lui, la domanda per il concorso per ufficiali di complemento dell’Esercito Italiano.
Quel concorso segna l’inizio casuale di una meravigliosa avventura: servire l’Italia come militare e come atleta, entrare a far parte della Folgore, indossare il basco amaranto, segno di unione e fratellanza, conseguire il brevetto di pilota osservatore di elicotteri.
Ed è proprio prestando il proprio servizio durante la missione Internazionale di pace nel 1996 nei Balcani, in Bosnia, che rimane vittima del dovere, ammalandosi per contaminazione da metalli pesanti. La prognosi identifica la Sensibilità Chimica Multipla (Mcs) da uranio impoverito, la presenza di nanoparticelle varie, ulteriori diagnosi neurodegenerative e gravi ripercussioni multiorgano su cuore, reni, midollo e polmoni. In molteplici interviste, egli descrive la sua difficile condizione utilizzando parole amare che fanno percepire il proprio stato d’animo ai lettori:
“Sono minato dal mio ‘nemico invisibile’, ma lo sport mi sostiene. La causa? I metalli pesanti sotto forma di detriti: piombo, mercurio, ferro, rame, acciaio e alluminio nel corpo. […] Ma la mia è una storia differente, non più drammatica, nè più meritevole di altre, ma diversa. Non è la storia di una ferita evidente, di una mutilazione. Il mio corpo non ha menomazioni che catturano lo sguardo. Nessun nemico mi ha ferito in battaglia, nessun attentato mi ha colpito. In realtà il nemico l’avevo incontrato eccome e mi aveva ferito senza che me ne accorgessi. […] Ha avuto tutto il tempo per devastarmi per sempre. L’uranio impoverito, i metalli pesanti li ho respirati durante le ore di volo sulle zone di guerra, mentre contribuivo a salvare vite umane. La contaminazione si è lentamente insinuata in tutti gli organi del mio corpo. Un nemico subdolo che mi ha profondamente minato dall’interno ogni singola cellula e che, giorno dopo giorno, si è impossessato di me con conseguenze devastanti”.
Con queste parole Carlo descrive l’evoluzione della malattia con la quale deve convivere ogni giorno. Nonostante quest’ultima, Carlo Calcagni è riuscito a trasformare la sua tragedia in forza di volontà e coraggio, riuscendo ad ingannare anche la morte, diventando atleta paralimpico dal podio d’Oro.
Come ha affermato egli stesso, grazie allo sport ha trovato la forza per andare avanti, affrontando e, soprattutto, vincendo sfide ciclistiche impossibili: due medaglie d’oro ai campionati mondiali di paraciclismo nel 2015, nel gruppo sportivo paralimpico della Difesa e tre medaglie d’oro agli Invictus Games 2016 di Orlando, in Florida, i giochi riservati a militari e veterani.
Perchè lo sport è così importante per Carlo e per chi come lui è affetto da patologie che intaccano il sangue?
Ovviamente lo sport non è solo uno svago, un momento che aiuta a distogliere la concentrazione da una situazione complessa o drammatica come quella vissuta da chi convive con malattie gravi, ma è un fattore positivo che aiuta a far fronte a questa condizione. A tal proposito si riportano le parole di Calcagni, in occasione dell’uscita del proprio docufilm diretto dal regista Michelangelo Gratton:
“Se io per due giorni non pedalo, quindi non sudo – e la mia sudorazione non è come quella di una persona normale, io nella mia ora e mezza di allenamento butto fuori anche 4 litri di liquidi e di tossine – sto male e peggioro. Sudando mi alcalinizzo e mi ossigeno, perchè mi serve anche l’ossigenazione dei tessuti, io ho un’insufficienza respiratoria per una fibrosi polmonare e sono stato anche operato. Con l’ultimo intervento, ho superato abbondantemente i duecento punti di sutura. Quelle sono le mie medaglie, quelle che magari non mi sono state riconosciute per il servizio prestato e che invece tutti gli interventi che ho dovuto subire nel tempo mi hanno inciso sulla pelle. Ma le medaglie più belle sono quelle che ti arrivano ogni giorno dalle persone che non ti devono nulla e che ti riconoscono dei meriti per quello che fai, per l’incitamento e la voglia di vivere che dai anche agli altri. È uno scambio.”